Sul Ponte del Diavolo

di Irene Vanni - COMPLETA

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    Sul ponte del Diavolo

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    Se chiedete agli esperti vi diranno che Lucida Mansi è morta di peste il 12 febbraio del 1649, ma chi si reca a Borgo a Mozzano la notte di Ognissanti preferisce credere che se la sia presa il Diavolo in cambio di quarant’anni di giovinezza.
    Come successe a me e ai miei amici quel 31 ottobre, quando decidemmo di tuffarci nella bolgia della rievocazione.
    Fuochi. Grida. Risate. Odore di salcicce e caldarroste. Maschere. Figuranti. Lucida Mansi e i suoi amanti sfortunati: quelli che fra loro l’avevano seguita nelle vacanze fuori città non erano più tornati a Lucca. Pare che la nobildonna li avesse fatti sparire, a uno a uno, dopo averli uccisi.
    Solo che il Diavolo, un giorno, tornò per lei.
    Lisa e Daniele, però, prima di assistere alle disgrazie di Lucida e di raggiungere il Ponte, avevano deciso di ispezionare il passaggio del terrore. Si trattava di un percorso forzato all’interno di scene orrorifiche, allestito in occasione della festa in un palazzo del borgo.
    Pensai che si trattasse della solita pagliacciata in stile “Tunnel dell’orrore”, ma, appena entrata, fui colpita dalla verosimiglianza dei quadri animati.
    Il percorso si snodò fra sedute spiritiche, parti mostruosi, omicidi in diretta, sangue a fiumi e situazioni più moderne, come assalti di ragazzi in sella a motoseghe.
    La scena che ricordo con maggior nitidezza, però, è quella delle dame cannibali.
    Dietro una tenda, circa a metà percorso, due donne in abiti e acconciature barocche spolpavano enormi ossa insanguinate, mentre alcune bambine si aggrappavano alle nostre braccia chiedendoci aiuto. Il pensiero che non avremmo potuto toccare i figuranti, e l’ansia paradossale che ne conseguì, mi dimostrarono quanto mi fossi immedesimata.
    Ma fu il fetore, quel miasma di pomodoro stantio evidentemente lì dalla mattina, a darmi fastidio sul serio.
    Sangue teatrale e innocuo figurante. Ebbene sì: fu il passato di pomodoro a farmi paura. L’odore, del passato di pomodoro.
    Fu mentre stavo facendo notare questo particolare a Lisa che vidi la tenda della scena successiva svelarsi sul volto di un incantevole figurante. I capelli castani ricadevano su un mantello nero e il pizzetto gli conferiva un’aria seicentesca che ben si addiceva all’atmosfera. Non appena lo indicai a Lisa notai che lei si guardò un po’ intorno, poi tornò a ridere delle motoseghe, proseguendo nel percorso.
    Quando mi voltai di nuovo verso la tenda, il ragazzo non c’era più.

    La faccenda del pomodoro mi aveva disgustata tanto da togliermi l’appetito; decisi così di lasciare Lisa e Daniele alla locanda e di fare un giro da sola.
    Per i vicoli vagavano le solite maschere figlie di una festa di Halloween ormai anche troppo inflazionata: streghe, fantasmi, vampiri e altre di più recente invenzione come il Corvo o Freddy Krueger; così mi trovavo più interessata ai cartelloni e ai manifesti dedicati alle stazioni di divertimento allestite per la rievocazione, sparsi qua e là su mura e portoni.
    Poi, lui tornò.
    Così, come all’improvviso mi era apparsa la sua immagine al di là della tenda, mi giunsero alle spalle i suoi versi armoniosi:

    "Bella madre d'amor,
    Da l'onde fuora sorgi
    E la notte ombrosa
    Di vaga luce scintillando indora.
    Venga, deh, venga omai la bella sposa
    Tra il notturno silenzio e i lieti orrori
    A temprar tante fiamme e tanti ardori!"

    Se non mi avesse avvicinato il volto all’orecchio, non sarei neanche riuscita a sentirlo, tanto era caotica la fiumana di gente riversata nel vicolo.
    Mi voltai per guardarlo e mi parve ancora più bello.
    — Recitar cantando. L’Euridice di Peri e Rinuccini. — Apparve un po’ contrariato dal mio stupore velato d’ironia. — Non la conoscete, signora?
    Risi. — Non a memoria.
    Il suo sorriso incerto si distese, poi mi girò intorno con una serie di passi che stavano fra la danza e l’inchino.
    — Ma che ci fai qui? — gli chiesi. — Non eri tra i figuranti?
    Lui scosse la testa. — Ho un amico dentro il palazzo che mi ha permesso di entrarvi per diletto. — La sua espressione prese una nota d’orgoglio. — Pur io son commediante.
    — Di nome?
    — Jacopo. — E quando mi presentai a mia volta, eseguì un vero inchino. — Umilissimo e devotissimo vassallo vostro.
    E così mi accompagnò per le vie del borgo, donandomi la sua divertente conversazione retrò.
    Osservavo di sbieco il mio cavaliere e pensavo che quella semplice figura fosse ben più caratteristica di molte maschere studiate per la serata: le suggestioni a cui alludeva il largo colletto bianco insanguinato valevano più di mille terrificanti facce di lattice.

    Seguimmo il percorso di Lucida fino al Ponte, dove i fuochi d’artificio e il batticuore mi fecero dimenticare Lisa e Daniele.
    Fu quando provai a toccarlo, però, che mi sentii smarrita. Avevo avuto come la sensazione che la mia mano gli fosse passata attraverso. Scacciai in fretta quel pensiero, attribuendone l’origine al caos, finché l’arrivo sul Ponte mi tolse ogni dubbio.
    Sotto i nostri piedi c’era ormai la magica costruzione, e le dita di Jacopo, intrecciate alle mie, m’infusero finalmente la certezza della sua stretta. Eppure, una sorta di agitazione morbosa ancora mi si aggrappava al respiro. Inspiegabile. Quasi onirica.
    — Sapete perché i ponti son costruzioni magiche? — Le sue parole mi sorpresero e scossi la testa, disorientata. — Perché riescono a unire ciò che la natura ha diviso.
    Senza quell’atmosfera e tutta quella gente intorno, non so se sarebbe andata allo stesso modo, ma quando mi baciò lo lasciai fare, come se non lo avessi conosciuto solo poco prima. Nessuno faceva caso a noi, così come io non mi curavo delle spinte che ricevevo nella mischia, quasi fossero pezzi di realtà estranea al mio presente.
    Infine arrivò un urto più energico degli altri e mi voltai per vedere chi fosse stato a interrompere quel momento incantato.
    Quando feci per afferrare di nuovo le mani di Jacopo, trovai il vuoto.
    Era sparito.

    "Tra il notturno silenzio e i lieti orrori..."

    i versi che ancora mi risuonavano nella testa:

    "... a temprar tante fiamme e tanti ardori!"

    Continuai a guardarmi intorno per qualche istante, speranzosa che prima o poi il mio bizzarro compagno ricomparisse, ma il cuore prese a battermi più forte del fuoco d’artificio, nell’inspiegabile certezza che non sarebbe successo.
    Infine, tra la folla, riconobbi i volti preoccupati di Lisa e Daniele.
    — Ti stavamo cercando — esclamò Lisa quando mi ebbe raggiunta. — Che è successo?
    Le loro sopracciglia aggrottate mi misero addosso uno strano senso di colpa.
    — Sono stata trascinata dalla gente che correva a vedere i fuochi — risposi. Infilai una mano in tasca. Avevo sette “chiamate non risposte” e un paio di sms. — Che casino — conclusi buttando uno sguardo in giro.

    "Tra il notturno silenzio e i lieti orrori..."

    Il ritorno a casa fu di una tristezza indescrivibile.
    Mi spogliai col fiatone e me ne andai a letto cercando di scacciare il pensiero di quel che era successo.
    Ma il mio inconscio non fu d’accordo.
    Mi tirai la coperta fin sopra la testa e...

    ... lo spazio fra me e il lenzuolo diventa un antro di muschio e umide rocce, curve scivolose e linee di carne. Lui mi sta abbracciando dal buio e mi sento sopraffatta da quest’idea di rifugio. La sensazione di fare l’amore con lui è reale e concreta. Tutto è sfocato e sensuale al tempo stesso. Poi il suo braccio che punta una stella diventa il Ponte e vedo la lunga curva in salita di fronte a me. C’è una donna vestita di giallo seduta a tavola, in mezzo al Ponte. Mi dà le spalle e pare non si sia accorta della mia presenza. Non c’è nessuno intorno. Mi avvicino e mi posiziono dal lato opposto del tavolo, per poterla vedere in faccia. Lei alza il viso verso di me — somiglia alla Giuditta di Artemisia Gentileschi — e mi sorride con la bocca sporca. È come se avesse mangiato pane e cioccolata, ma una cioccolata purpurea, che intorno alle labbra si è mischiata alla cipria e al rossetto delle dame cannibali. Così guardo il pranzo. C’è una testa di giovane uomo nel piatto e lei gli sta rovistando nel cranio con un coltello.
    — Come avevo previsto — esclama con voce stizzita, — non aveva niente nella testa.
    — Sei Lucida? — mi sento chiedere.
    Lei neanche mi ascolta e afferra un’altra testa, posta stavolta su un vassoio d’argento ricoperto da merletti bianchi. È la testa di Jacopo.
    — Lui, verbigrazia, aveva ingegno! — Gli infilza un minuscolo coltello (o è il dito di Freddy Krueger?) nell'angolo di un occhio e lo fa roteare per farlo affondare sempre di più. Il bell’occhio celeste comincia a sgusciare fuori e quando, come un burattino, gli pende sulla guancia seguito da (penso) delle graziosissime cordicelle colorate, la dama lo strappa. — Troppo — conclude in tono ironico; poi se lo infila in bocca gustandoselo a occhi chiusi.
    Infine affonda le dita nell’occhio rimasto e, con lo stesso rumore prodotto da chi scava sulla sabbia bagnata della riva, lo estrae. Afferra dei fiori da un vasetto sul tavolo e glieli pianta nelle orbite vuote, dopodiché getta l’ occhio nel vasetto.

    Si lava la punta delle dita in una bacinella piena di sangue e la vedo alzare il coperchio di un altro vassoio. C’è una bambina a pezzi. Guardo di nuovo in faccia la dama e vedo che adesso ha volto di teschio; ma la mia attenzione è attratta dai movimenti sul vassoio e vedo che la bambina si sta ricomponendo da sola. Mi prende una mano. Mi volto. Voglio scappare. Non ci riesco. Ansimo. Mi volto di nuovo: ora è Jacopo che mi sta afferrando per un braccio. Lucida non c’è più. Lui sorride e mi copre col suo mantello. Vedo tutto nero.
    Alzo il mantello e sono di nuovo nel mio letto. Sento che qualcosa sta uscendo da me. Allargo le gambe. C’è una pozza di sangue sul lenzuolo e un feto a forma di pergamena arrotolata scivola sul materasso senza procurarmi dolore. La apro. C’è stampato il volto di Jacopo che osserva i fuochi d’artificio.
    Li sento...?

    Mi svegliarono il trapano e il martello dell’inquilino del piano superiore. Nei giorni di festa, per la mia gioia, si dava sempre al fai-da-te sin dal primo mattino.
    Ma quel giorno non gridai rivolta al soffitto.
    Senza pensare ad altro corsi al computer e cercai di appuntare il sogno che avevo appena fatto. Avrei potuto trarne un racconto, ma ancora non mi sentivo del tutto tornata alla realtà. Non trovavo la “v”. Le mie dita si annodavano sulla tastiera come se dovessero ancora svegliarsi e le lettere si mischiavano sullo schermo in una grammatica di pura invenzione mattutina. Maledetto trapano! Mi sgusciò l’indice sulla “l”. Che sogno allucinato... Una sfilza di “d”. Avevo la vista annebbiata. Alcune lettere s’incantavano. Alcune... la D, la V e la L!
    DiaVoLo d’un commediante!
    Mi lanciai getti d’acqua gelata sul volto, ma il pensiero che roteava nella mia mente non voleva andarsene. Era lui. Era lui che voleva farmi tornare dove c’eravamo lasciati. Troppa gente. Troppa confusione. Meglio parlarsi con un po’ più d’intimità, no?
    Forse stavo solo giocando con la mia fantasia, ma il provare a tornare sul posto per togliermi ogni dubbio, mi sarebbe costato solo qualche goccia di benzina, e ne valeva certo la pena.
    Presi dunque la macchina e tornai da sola al Ponte del Diavolo.
    La gobba del ponte mi attendeva, opaca e assolata nel giorno dopo il Grande Sabba. La inforcai come se il sogno non fosse ancora terminato, e il battito del cuore m’intralciò il respiro quando vidi Jacopo attendermi in piedi sul lastricato, nel punto più alto della costruzione, lì dove stava la macabra commensale del mio sogno.
    Dopo gli odori, i rumori e le corse tra la folla della sera della festa, l’antico ponte di montagna era tornato a riposare solitario, nella quiete di un mattino comune. Era come se fosse lì solo per sorreggerci, e l’aria che lo incorniciava era così silenziosa da risultare ovattata. Niente più turisti. Persino all’osteria di fronte tutto taceva.
    Solo un motore in lontananza. Sempre più smorzato.
    Poi di nuovo lui e basta.
    Trovarlo proprio lì, in quel momento, con quell’espressione seria dipinta sul volto più bianco di quello di un pagliaccio triste, mi diede la certezza che tutto non stava avvenendo per caso, che qualcosa di strano e terribilmente reale stesse piombando sul mio capo troppo umano, forse, per sorreggerne il peso.
    Ero terrorizzata.
    Ma anche felice di rivederlo.
    Mi spinsi a due passi da lui, e non so quale naturalezza o follia m’indusse a chiedergli: — Ti ha ucciso Lucida, vero?
    Sorrise con amarezza, accennando un “sì” con la testa.
    — Ma — esitai — perché?
    — Volevo partirmene per fare il commediante. — Mi osservò un istante in silenzio. — Lucida non accettò la mia decisione. — Avrei voluto spiegargli che il mio “perché” sottintendeva altri interrogativi, e cioè: “Perché, fra tutti, sei tornato proprio tu?”; e “Perché da me?” — Voi — ma Jacopo mi prevenne — potete aiutarmi.
    — Io? — Non capivo.
    — Sì, voi. — Mi regalò il sorriso più dolce del mondo, e non ebbi più paura. — Scrivereste una commedia sulla mia persona, in modo ch’io possa far quel che desideravo, recitando nella vostra fantasia?
    Rimasi sbalordita e mi occorse del tempo prima di mormorare: — Proprio una commedia? — Sospirai. — Vedrò cosa posso fare.
    Non riuscii a trattenermi dal ridere, e lui rise con me, prendendo la mia ilarità come un cenno d’assenso.
    — Mi date dunque la vostra parola?
    Ci fissammo e sentii il mio sorriso svanire sotto il suo sguardo tornato serio.
    — Te lo prometto.
    Non feci in tempo a sorridere di nuovo, non feci in tempo a chiedergli cosa mi avrebbe dato in cambio. Bellezza? Giovinezza? Amanti dai sogni più grandi di loro?

    "Non piango e non sospiro
    Che sospirar, che lagrimar non posso,
    Cadavero infelice,
    O mio core, o mia speme, o pace, o vita!"

    Vidi la sua immagine farsi grigia ombra di sogno, e volar via come cenere, nel suo sorriso che infine m’abbracciava.
    Rimasi in piedi sul ponte finché non ricominciai a sentire il vento stormire tra le foglie in lontananza, e il suono di un clacson.
    Ma non feci come Orfeo.
    Tornai alla macchina senza voltarmi.




    Irene Vanni (n. Pontedera - PI) - Giornalista pubblicista, laureata in Lettere con una Tesi sul Rock Progressivo, ha insegnato nella scuola primaria. Attualmente è co-curatore di "Horror Magazine" e ha scritto per i periodici "Fiction TV", "Metal Shock" e la fanzine ufficiale dei Death SS. Suoi racconti sono apparsi su "Writers Magazine Italia", "Delos Science Fiction", "Fantasy Magazine" e le antologie a cura di Franco Forte “Dragonland" (Delos Books, 2009) e “365 Racconti erotici per un anno” (Delos Books, 2010).
    Il suo romanzo fantasy per ragazzi “I musicanti degli elementi” è uscito nel 2010 per la nuova collana di Delos Books in ebook “Maghetti”.



     
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  2. *Naif*
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    l'ho letta fino alla fine *O* poi ho scoperto che non l'hai scritta tu xD però è bella *o* mette davvero i brividi xD se la leggo di notte mi sa che non dormo °o°
     
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  3. candyiole
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    Bella Rea ma la leggo uno di questi giorni me la sogno altrimenti ^_^
     
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  4. Dernier © Rea
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    A me ha fatto abbastanza impressione...perché davvero è raccontata bene :P

    No Naif non è mia purtroppo XD non scrivo ancora a questi livelli ^^
     
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